Prologo
Solitamente crediamo che le vicende reali siano meno complesse ed intricate dei romanzi gialli di Agatha Christie. Ciò, almeno ad un’analisi superficiale, è vero. Ma spesso gli eventi reali nascondono retroscena e significati nascosti. Magari si sa chi è l’assassino, e non serve così nessun Poirot o Miss Marple che lo scopra, ma non sempre sono chiare tutte le motivazioni che animano gli attori sulla scena. E così eventi come la strage della Freedom Flottilla possono essere descritti ed analizzati quasi fossero dei gialli usciti dalla fervida fantasia d’uno scrittore, e non tragici eventi che coinvolgono persone reali.
L’antefatto
Nel 2006 il movimento Hamas vinse le prime elezioni democratiche dell’Autorità Nazionale Palestinese, l’embrione di Stato arabo – atteso ormai da oltre sessant’anni – concepito con gl’illusori accordi di pace degli anni ’90. Spalleggiato da Israele e dai paesi occidentali, il partito rivale al-Fatah rifiutò l’esito elettorale ed i Territori palestinesi scivolarono in un’autentica guerra civile, seppure a bassa intensità. Dal 2007 al-Fatah controlla la Cisgiordania, grazie all’aiuto delle truppe israeliane, mentre Hamas ha preso il sopravvento nella Striscia di Gaza, unilateralmente evacuata dai sionisti nel 2005.
Da allora Israele, che è ancora riconosciuta internazionalmente quale potenza occupante della Striscia (al momento dell’evacuazione non ha infatti compiuto alcun passaggio di potere), la stringe in una morsa per cercare di soffocare la crescita di Hamas: l’assedio è in atto dal mare e, grazie al contributo dell’Egitto, anche da terra, tanto che numerosi paesi ed organizzazioni internazionali parlano da anni di grave emergenza umanitaria (ciò non sorprende, dal momento che stiamo parlando d’un territorio di 360 km2 – poco più di un decimo della Valle d’Aosta – abitata da un milione e mezzo di anime – una densità superata solo dalle città-Stato come Monaco o Singapore). Periodicamente le truppe israeliane, assiepate lungo il confine, compiono incursioni all’interno della Striscia. È in occasione di tale guerriglia di confine che Hamas ha catturato il celeberrimo caporale Gilad Shalit, e che gl’Israeliani hanno fatto prigionieri parecchi dei 7.000 palestinesi detenuti nelle carceri dello Stato ebraico (diverse centinaia di questi sono minorenni). I media generalmente parlano di “sequestro” del caporale Shalit e, quando raramente ne accennano, di “arresto” dei palestinesi. Se è possibile accettare l’idea che Shalit sia stato “sequestrato” (assumendo la prospettiva di quei paesi che considerano Hamas un movimento terrorista, e dunque un’organizzazione criminale), non è in nessun caso giustificabile considerare i prigionieri palestinesi alla stregua di criminali comuni arrestati dalle autorità. I palestinesi nei Territori – mai formalmente annessi da Israele, che anzi con gli Accordi di Oslo ne ha riconosciuto la parziale sovranità all’ANP – non hanno cittadinanza israeliana, non si trovano in territorio israeliano e sono sottoposti alla giurisdizione militare, ossia alla legge marziale imposta dalla potenza occupante. I palestinesi incarcerati dai sionisti, per tanto, si dovrebbero definire “deportati” o “internati”.
La più importante delle succitate operazioni militari, tanto da essere identificata come una vera e propria guerra, fu quella a cavallo tra 2008 e 2009. A giugno 2008 era stata concordata una tregua semestrale tra Israele e Hamas, in virtù della quale il lancio di razzi palestinesi in territorio israeliano fu pressoché azzerato (dai 400-500 dei mesi precedenti, alla decina dei primi mesi di tregua fino ai 2 di ottobre); dal canto suo Israele diminuì il numero delle incursioni, pur non annullandole del tutto. Non di meno, Tel Aviv continuò a mantenere il blocco economico sulla Striscia ed a condurre azioni militari contro Hamas in Cisgiordania: il movimento palestinese giudicò perciò impossibile rinnovare la tregua sulle stesse basi. Il 4 novembre, benché la tregua fosse ancora in vigore, le truppe sioniste lanciarono una massiccia incursione militare all’interno della Striscia (ufficialmente per bloccare una galleria sotterranea che permetteva d’eludere il blocco), uccidendo alcuni palestinesi. Hamas denunciò la violazione della tregua e, per rappresaglia, riprese il lancio di razzi. Tel Aviv rispose a sua volta con un’azione militare in grande stile, che provocò migliaia di vittime nella Striscia.
Da allora tra Gaza e Israele continua uno stato di conflittualità a bassa intensità (con rari attacchi palestinesi e sporadiche incursioni israeliane), ma permane il blocco economico della Striscia attuato da Tel Aviv e dal Cairo.
Il delitto
È stato per portare momentaneo sollievo alla popolazione stretta in tale assedio economico che è nata la “Flottiglia della Libertà”: un insieme di otto imbarcazioni, per lo più battenti bandiera turca o greca, allestite da varie organizzazioni umanitarie (la più importante l’anatolica Insani Yardim Vafki, IHH) e con a bordo numerose personalità del mondo politico e culturale, ma soprattutto ingenti quantità di beni da portare alla popolazione di Gaza, tra cui medicinali, libri e materiale edile (che il blocco sionista non lascia passare).
Le otto imbarcazioni si sono riunite a Cipro: le locali autorità hanno impedito a quanti volevano imbarcarsi direttamente dall’isola (tra cui l’ex senatore italiano Fernando Rossi) d’unirsi a quelli che già si trovavano sulle navi, due delle quali sono rimaste bloccate per problemi tecnici. Le altre sei sono partite il 30 maggio alla volta di Gaza, ma dopo poche ore intercettate in acque internazionali dalla marina israeliana.
L’arrembaggio d’un commando sionista alla nave ammiraglia della Flottiglia, la turca Mavi Marmara (vecchia imbarcazione di linea, con circa 600 passeggeri a bordo), è finita in una strage, con 19 morti (9 secondo Tel Aviv) e parecchie decine di feriti: tutti i morti e quasi tutti i feriti sono passeggeri della nave abbordata. La Flottiglia coi relativi passeggeri sono stati sequestrati dalle forze armate sioniste, interrogati con metodi violenti che rasentano la tortura, e da poco espulsi dal paese (tra loro anche l’italiana Angela Lano, direttrice dell’agenzia Infopal).
Una trama da svelare
Immediatamente si sono scontrate due versioni opposte degli eventi. Secondo gli attivisti attaccati, il commando incursore avrebbe deliberatamente sparato su persone inermi. Tel Aviv afferma invece che i soldati avrebbero agito per “autodifesa”, attaccati dai passeggeri della nave. Inizialmente si è parlato di mazze e coltelli, in seguito persino di armi da fuoco. Quest’ultima eventualità non è al momento suffragata da prove, ed anzi smentita dalle autorità turche, che affermano d’aver sottoposto tutti i passeggeri, al momento dell’imbarco, a controlli coi raggi X. Inoltre, pare poco probabile e sicuramente insensato che qualcuno dei passeggeri abbia cercato uno scontro a fuoco con soldati professionisti di reparti scelti. Israele ha finora diffuso immagini delle presunte “armi” trovate sulla Mavi Marmara: coltelli da cucina, chiavi inglesi, pertiche, catene. Nulla che sorprenda ritrovare su una nave passeggeri che sta compiendo un viaggio di più giorni e trasporta materiali vari da consegnare a destinazione. Appare improbabile che qualche temerario abbia provato a sfidare soldati armati di mitragliatore con coltelli da cucina. È possibile che qualcuno abbia provato a resistere armandosi d’una spranga, ma ciò non giustificherebbe comunque la reazione delle truppe sioniste: la polizia di qualsiasi paese del mondo è addestrata ad affrontare con mezzi non letali i facinorosi che oppongano resistenza con bastoni o affini, senza bisogno di sparare in piena notte in un’imbarcazione affollata di gente. I media turchi sostengono addirittura che i soldati israeliani avrebbero eseguito alcuni omicidi a sangue freddo in base ad una lista di personalità ricevuta prima dell’attacco: anche questo è inverificabile, ma rimane una certezza, e cioè che le truppe sioniste hanno fatto come minimo un uso sproporzionato della forza. Chiediamoci ora il perché.
Una prima possibilità è che i soldati israeliani abbiano perso il controllo della situazione, e soprattutto di se stessi. Di fronte ad una qualche resistenza alla loro azione illegittima – dal momento che è stata condotta in acque internazionali – hanno reagito aprendo il fuoco sui passeggeri della nave e facendo una strage. Per forze armate forgiate da decenni d’occupazione e controguerriglia in Palestina, disabituate a distinguere tra combattenti e civili, dimentiche delle leggi belliche ed ignare del diritto internazionale, avvezze al massacro di civili, sarebbe possibile se non probabile usare il pugno più duro di quel che servirebbe. Ma parrebbe troppo dilettantesco per un’unità di élite com’è la Shayetet 13 incapparre in un incidente tanto grossolano, trasformando l’arrembaggio ad una nave di pacifisti in una strage di massa. Si è inclini a pensare che il pugno duro sia stato preventivato, che l’uccisione d’alcuni passeggeri fosse voluta o, quanto meno, non disdegnata. Ma da chi?
Secondo Janiki Cingoli, direttore del CIPMO, gli apparati di sicurezza israeliani si muoverebbero ormai da soli, ed il governo sarebbe incapace di controllarli. È fuor di dubbio che in Israele i militari abbiano un enorme potere ed una forte indipendenza dal controllo politico; ma è difficile credere che agiscano in assoluta autonomia, senza il consenso di almeno una parte del governo. Probabilmente la stessa parte che, in coincidenza con la visita del presidente statunitense Joe Biden in Israele, fece in modo di mettere in serio imbarazzo lui e il primo ministro sionista Netanyahu dando il via libera alla costruzione d’edifici residenziali per coloni nella Gerusalemme Est occupata. C’è in Israele una parte consistente e soprattutto in grande crescita di ultra-nazionalisti, generalmente estremisti religiosi, che si sentono limitati dalle critiche degli alleati ed amici occidentali, e preferirebbero un Israele più isolato internazionalmente ma che abbia mano libera per una “soluzione finale” della questione palestinese, delle dispute di confine, del programma nucleare iraniano, della sistemazione della regione. Un’estrema destra di stampo religioso che vorrebbe rompere con USA e Unione Europea, abbandonare ogni residua timidezza e far valere la propria supremazia militare e nucleare nel Vicino Oriente per ridisegnarlo a proprio piacimento.
Questa è una possibile chiave di lettura, imperniata sulla politica interna d’Israele. Ma più probabile è che, al posto di tale motivazione o in aggiunta ad essa, ci sia la volontà da parte del ceto dirigente israeliano (o di una parte di esso) di lanciare un messaggio al mondo intero.
Provocazione è la parola chiave.
“Provocazione” è stata, secondo le autorità sioniste, quella della Flottiglia della Libertà. Tutti gli estremisti d’ogni tempo e colore amano giustificare le proprie azioni denunciando una presunta “provocazione” da parte dell’avversario. Negli anni ’70 molti crani furono rotti per punire quelle ch’erano percepite come “provocazioni”. Questo perché l’estremista è per sua natura iper-sensibile, paranoico, intollerante: tutto o quasi è per lui “provocazione”. “Provocatore” è l’avversario se tenta di esternare le proprie idee; “provocazione” può essere la semplice presenza fisica di colui che si odia. Il sionismo, soprattutto nella sua nuova declinazione religiosa, è un’ideologia radicale (costruire una nazione che prima non c’era, nel paese dove c’è un altro popolo, è senza dubbio un progetto radicale ed estremista, a prescindere dal giudizio positivo o negativo che di esso si voglia dare); il sionismo è paranoico, perché vede nemici ovunque (il presunto odio eterno che i goym avrebbero verso gli Ebrei); il sionismo è intollerante perché non mostra pietà per chi vi si oppone (secondo il rabbino Ytzhak Shapira, è doveroso uccidere qualsiasi non ebreo ostacoli Israele); il sionismo è estremista perché attratto dalle visioni apocalittiche (secondo lo storico israeliano Martin Van Creveld, se Israele dovesse collassare è probabile che proverebbe a trascinare con sé il mondo intero usando le proprie testate atomiche, che assommano ad alcune centinaia). Malgrado ciò, tuttavia, e senza voler in alcun modo giustificare il massacro d’attivisti innocenti, Israele non è completamente nel torto quando ravvisa una “provocazione” nel progetto della Flottiglia. Per comprenderne la natura, bisogna concentrarsi sul ruolo dello Stato che se ne è fatto tutore: la Turchia.
Stando a George Friedman, Ankara avrebbe volutamente cercato l’incidente affinché Israele si mettesse in cattiva luce davanti al mondo. Sembra tutto troppo machiavellico. Più credibile è che i Turchi pensassero che, grazie all’egida data all’iniziativa, questa potesse “bucare” il blocco navale israeliano. Si sarebbe trattato di un evento dall’alto valore non solo umanitario ma anche simbolico, a favore del ruolo della Turchia come potenza regionale protettrice dei musulmani. Il fatto che Ankara si immischiasse nella questione palestinese è stato percepito dai sionisti come una “provocazione” cui rispondere nella maniera più brutale possibile.
Se al pari di Thierry Meyssan e seguendo la ricostruzione fin qui fatta, si riconosce che la strage della Flottiglia è stata deliberatamente provocata da Israele, bisogna concludere che anche Tel Aviv volesse con ciò lanciare la propria “provocazione”. La trama di questo giallo è stata scritta nel sangue, sangue che i sionisti hanno voluto sbattere in faccia al mondo per lanciare il loro messaggio, ed osservare la reazione.
Gli USA, malgrado le recenti tensioni col governo israeliano e l’umiliazione fatta patire a Biden durante la sua visita nello Stato ebraico, al dunque hanno mostrato di non potere o non volere prescindere dall’allineamento a Tel Aviv, coprendone le malefatte in sede di Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
L’Europa ha fatto le sue rimostranze di facciata, simili a quelle che accompagnarono l’aggressione a Gaza nel 2008-2009: “distinguo” che vorrebbero salvare la nomea di “potenza benigna” che l’UE ha o crede d’avere nel mondo, senza però realmente ostacolare la politica d’Israele. Non c’è da sorprendersi che pochi paesi abbiano mostrato una reale insofferenza verso l’azione sionista, e cioè quelli in cui la Flottiglia aveva degli appoggi “altolocati” (vedi la Grecia). In tutti gli altri paesi – vedi ad esempio l’Italia – i partecipanti alla Flottiglia sono anche dissidenti del proprio governo, il quale difficilmente sarebbe realmente dispiaciuto se succedesse loro qualcosa. Indicativo che le dichiarazioni provenienti dalle varie cancellerie europee siano in linea con quelle della Farnesina, da alcuni anni autentica succursale del Misrad HaHutz, la quale per distinguersi s’è limitata a qualche frase sconcertante di un oscuro sottosegretario.
Neppure i paesi arabi sembrano andare oltre le pubbliche dimostrazioni di sdegno, che celano un’inattività diplomatica paragonabile a quella osservata durante la guerra a Gaza – quando la stessa convocazione di un inconcludente vertice della Lega Araba richiese più giorni. L’Egitto ha riaperto il Valico di Rafah, ma la sensazione è che il presidente Mubarak abbia con ciò voluto rispondere alla pressione del suo popolo, e che quando la tempesta sarà passata riprenderà a bloccare la Striscia di concerto con Israele.
Tutte queste reazioni erano abbastanza scontate. Tel Aviv, con la sua provocazione, ha voluto mettere alla prova prima di tutto la sua antagonista in questa faccenda: la Turchia. Il primo ministro Erdoğan aveva patrocinato l’iniziativa umanitaria per riaffermare il ruolo del suo paese nella regione: la brutale reazione israeliana vuole suonare come un’umiliazione a Ankara davanti al mondo intero. I sionisti hanno compiuto un atto di pirateria, assalendo in acque internazionali una nave turca in missione sponsorizzata dal governo, massacrando numerosi membri dell’equipaggio, deportando e brutalizzando gli altri prima di espellerli dal paese. Con ciò ha voluto dimostrare la propria forza: dimostrare che la sua superiorità militare e nucleare, coniugata con l’efficace azione delle lobbies sioniste sparse per il mondo (che lo garantiscono da un totale isolamento internazionale), permette a Israele di muoversi come vuole. I Turchi non possono reagire alla violenza con la violenza, non perché le loro forze armate convenzionali siano molto più deboli di quelle israeliane (in realtà il divario non è così netto), bensì perché Ankara non dispone di armi atomiche, mentre Tel Aviv ne ha a disposizione un paio di centinaia. E toccare Israele senza disporre d’una sufficiente deterrenza nucleare fa paura a tutti, perché lo Stato ebraico sembra ormai aver metabolizzato il dettame di Moshe Dayan: «Israele dev’essere come un cane rabbioso, troppo pericoloso da importunare». Quella che prima era una strategia deliberata, una “maschera” che i sionisti decisero d’indossare davanti al mondo, ora sta diventando l’identità stessa della nazione, è penetrata nell’intimo di un popolo sempre più orientato all’estremismo religioso ed alle soluzioni apocalittiche.
Un finale ancora da scrivere
Ha ragione Simon Thurlow a sostenere che l’incidente della Flottiglia favorirà l’AKP sul piano interno, perché il turco è un popolo fiero e fortemente nazionalista, che con tutta probabilità reagirà all’aggressione schierandosi a fianco del proprio governo. Purché il governo si dimostri però forte. Se Erdoğan darà segnali di debolezza, la sua gente perderà fiducia in lui.
Il Primo Ministro dovrà poi giustificare la nuova linea di politica estera, sempre più contrapposta a Israele, davanti alle Forze Armate che, com’è noto, almeno negli alti gradi non simpatizzano per lui. Erdoğan ha ammonito Israele che non conviene farsi nemici la Turchia, ma ciò che ha voluto affermare Tel Aviv col suo gesto brutale è proprio l’opposto: che a Ankara non conviene avere lo Stato ebraico per nemico.
Israele ha provato ad umiliare Erdoğan davanti al suo popolo, ma pure a screditarlo nella regione.
Ankara cerca di porsi come nuova potenza guida dei paesi musulmani nel Vicino Oriente, ma nessuno è disposto ad accettare un protettore che non sia forte a sufficienza. Tel Aviv ha voluto rimarcare la propria superiorità sulla Turchia affinché gli Stati arabi non cedessero alle lusinghe “neo-ottomane” di Ankara.
A questo punto, però, la palla è nel campo turco. Adesso tocca a Erdoğan abbozzare una reazione alla provocazione israeliana, una reazione che gioco forza deve escludere l’opzione militare ma dev’essere sufficientemente ferma e dura. Se la troverà, allora potrebbe ribaltare a proprio favore la situazione, conquistando ancor più i cuori della propria gente e la fiducia degli altri Stati nella regione. Se non vi riuscirà, le tensioni interne all’élite anatolica ne risulteranno acuite, e l’ascesa della Turchia come potenza regionale sarà, se non abortita, sensibilmente rallentata.
* Daniele Scalea, redattore di “Eurasia”, è autore de La sfida totale. Equilibri e strategie nel grande gioco delle potenze mondiali (Fuoco, Roma 2010)