“Il triangolo no, non l’avevo considerato”
Non sappiamo se Obama conosca la canzone di Renato Zero ma sicuramente i pensieri, suoi e della Casa Bianca, sono molto vicini al tormentone del cantante romano.
L’accordo siglato lunedì 17 maggio fra Brasile, Turchia ed Iran ha, infatti, messo in crisi mezza Washington.
Numerose le dichiarazioni rilasciate subito dopo la firma, e ciò che maggiormente emerge è la totale eterogeneità fra le opinioni statunitensi e quelle dei brasiliani, veri protagonisti dell’intera vicenda.
Mentre da una parte il presidente brasiliano, Luiz Inacio Lula Da Silva, sottolinea l’importanza di stabilire un rapporto di fiducia col governo iraniano, indispensabile per una buona relazione politica, dall’altra parte, la Casa Bianca si limita ad esternare la propria contrarietà all’intesa, indicandola come l’ennesimo tentativo di bloccare l’azione del Consiglio Di Sicurezza (CdS) dell’ONU, per impedire l’emissione di sanzioni, in grado di ostacolare il programma nucleare iraniano.
Alla fiducia di Lula si contrappone, quindi, la sfiducia totale di Washington.
L’accordo
In poche parole, si tratta di uno scambio fra l’Iran di Ahmadinejad e la Turchia di Erdogan.
Da un lato Teheran cede parte del suo stock di uranio, lievemente arricchito (58% del totale – 1200 kg arricchiti al 3.5%) , per ricevere, a distanza di un anno, materiale nucleare di maggiore arricchimento, necessario alla produzione di radioisotopi da utilizzare a scopo medico e industriale.
L’accordo prevede, inoltre, che entro sette giorni (dalla firma) il governo islamico notifichi per iscritto, presso L’Agenzia Internazionale Per L’Energia Atomica (AIEA), l’accordo stesso, il che obbliga Teheran a rispettare il Trattato Di Non Proliferazione Nucleare (TNP) e di conseguenza innesca l’automatico consenso alla contabilità degli stock nucleari da parte dell’AIEA.
Traduzione: fine della minaccia nucleare iraniana (almeno in teoria).
La contrarietà e le difficoltà evidenti degli Stati Uniti sembrerebbero, dunque, a primo avviso ingiustificabili.
Inoltre, va ricordato che non si tratta di un’operazione improvvisa e svolta in completa arbitrarietà, bensì di un’ intesa frutto di un lavoro iniziato lo scorso 2009.
Ovvero, quando proprio l’AIEA propose all’Iran lo scambio nucleare.
In quel caso Teheran avrebbe dovuto cedere 1200 Kg di uranio arricchiti al 35%, in cambio di barre di combustibile raffinato al 20%, processate prima in Russia e in seguito in Francia.
Il tutto sotto il controllo delle cinque grandi potenze permanenti del CdS dell’ONU (Cina, Russia, Francia, USA e Gran Bretagna) più la Germania.
Il negoziato si è poi definitivamente impantanato, per via delle discussioni sulla località in cui avrebbe dovuto aver luogo lo scambio e sulla sua quantità.
Ulteriore prova che conferma il comportamento illogico di Washington è una lettera del presidente Obama, giunta a Brasilia agli inizi di maggio, ma resa nota solamente pochi giorni fa.
La lettera evidenzia come l’azione diplomatica promossa da Lula abbia avuto il via libera proprio dalla Casa Bianca, la quale si era anche spinta a suggerire accorgimenti da far includere all’interno del patto; la notizia è stata confermata dalla stessa amministrazione Usa che ha rimproverato la stampa brasiliana di aver divulgato la corrispondenza del Presidente, e di cui tuttavia i suggerimenti dati non sono stati presi in considerazione.
Tutto questo confermerebbe quanto detto e ridetto dal presidente Lula e dal Ministro degli Esteri, Celso Amorim, ossia che il patto raggiunto altro non è che il raggiungimento di quelle che sono state le richieste delle potenze occidentali.
Le ragioni di così tanto astio nei confronti dell’accordo firmato da Brasile, Turchia ed Iran è dunque da individuare al di là dell’accordo stesso.
Innanzitutto, la perdita di due alleati come Turchia e Brasile in due zone strategiche per gli interessi geopolitici statunitensi; in secondo luogo, l’impossibilità di opporsi alla via diplomatica di Lula e soci e, allo stesso tempo, l’inevitabilità di apparire come l’unico grande sconfitto, dopo che per anni si è brandito il bastone contro l’Iran; infine, la ragione più significativa è proprio lo stesso Brasile.
Quello raggiunto da Lula è un importante trionfo politico e diplomatico.
Trionfo che dimostra come stia, di anno in anno, mutando il panorama del potere internazionale, in cui le decisioni non sono più il risultato di scelte unilaterali ma vanno condivise con grandi paesi emergenti come Cina, India e naturalmente Brasile.
Lo stesso Iran ha percepito l’indebolimento USA a livello mondiale, facilitando di conseguenza la facoltà di agire anche contro la volontà della Casa Bianca; questa non costituisce più una minaccia esistenziale: non solo perché le condizioni interne del Paese impediscono un nuovo intervento militare, come quello in Iraq nel 2003, ma anche perché, come già sottolineato, quell’unipolarità egemonica avuta dagli Stati Uniti dal 1991 al 2008 è ora in declino.
La potenza brasiliana è dunque uno dei perno del le preoccupazioni statunitensi.
Una potenza in forte espansione, in grado di offuscare, perfino, l’operato di Washington in Medio Oriente.
Il confronto è apertissimo e tutto da giocare: il punto cruciale risiede proprio all’interno della regione sudamericana e passa dalla difesa strategica dell’Amazzonia al petrolio trovato nel sud del Atlantico.
Il Brasile, da parte sua, ha ben pensato di allargare il proprio complesso militare-industriale, in modo da arrivare a costituire una vera e propria garanzia regionale, ma soprattutto globale. Basti pensare che proprio in Amazzonia, per tenere testa alle nuove basi statunitensi in Colombia, si passerà da 24mila soldati a 49mila.
Tornando all’accordo, Teheran ha ormai ufficializzato il tutto, presentandolo, come stabilito, all’ONU e quindi notificandolo all’AIEA, compiendo di fatto il primo passo verso lo scambio con Ankara.
Per quanto riguarda le sanzioni, sembrano pian piano allontanarsi sempre più, se non altro in tema nucleare.
Se, infatti, gli Stati Uniti continuano a decantarne l’inevitabilità, la comunità internazionale è sempre più convinta di poter concedere una possibilità al Governo di Ahmadinejad, con la speranza di poter accantonare definitivamente la minaccia nucleare iraniana (Teheran ha sempre negato comunque di voler costruire armi atomiche) – l’unica voce a farsi forte, nell’allinearsi col pensiero statunitense è, ovviamente, quella israeliana che non ha tardato a definire l’accordo come l’ennesima trappola iraniana, volta a rimandare la durezza delle sanzioni.
La pacificazione dei rapporti con l’Iran non è estranea a guadagni economici e condizioni favorevoli – Russia e Cina aspirano a sovrastare il gigante americano – ma, effettivamente, dopo la soluzione del 17 Maggio, Teheran non potrà più agire in maniera totalmente autonoma, come accadeva prima della firma.
* Stefano Pistore è laureando in Mediazione linguistica e culturale