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Le elezioni in Slovacchia

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Il 12 giugno scorso i cittadini slovacchi sono stati chiamati alle urne per rinnovare il Parlamento e, di conseguenza, per stabilire a chi spetti il diritto – dovere di guidare il Paese.

Dalle urne sono usciti una serie di risultati alquanto interessanti.

Innanzittutto, il primo ministro uscente Robert Fico (nella foto) sembra aver riportato una vera e propria vittoria di Pirro: sebbene il suo partito (Smer – SD, centro – sinistra) abbia registrato un aumento dei gradimenti rispetto alle precedenti elezioni (circa il 6% in più) ed abbia incassato più voti di tutti gli altri partiti considerati singolarmente (34,8% delle preferenze che si traduce in 62 seggi parlamentari), i suoi 2 alleati sono usciti malconci dalla tornata elettorale: mentre l’ultranazionalista Partito Nazionale Slovacco ha superato per un soffio la soglia di sbarramento del 5% (ottenendo un 5,1%, 9 seggi), il nazionalista Movimento popolare per la democrazia slovacca (HZDS) dell’ex primo ministro Valdimir Meciar si è attestato ben al di sotto di quella soglia rimanendo quindi escluso dall’assegnazione dei seggi parlamentari. Come già annunciato dal Presidente della Repubblica Ivan Gasparovic, Fico ha il diritto, in quanto leader del partito più votato, di tentare la formazione di una nuova coalizione di governo. Le possibilità che riesca in tale impresa sembra ad oggi quasi inesistenti, se si tiene conto del fatto che:

  1. Una coalizione tra Smer – SD e Partito Nazionale Slovacco non è sufficiente a creare una coalizione minimo vincente (che abbia cioè il numero di seggi minimo per ottenere la fiducia parlamentare). I due partiti assieme hanno 71 seggi. Ne mancano dunque 5;

  1. I 4 partiti di centro – destra, a cui spettano complessivamente 79 seggi, si sono detti indisponibili ad appoggiare un governo guidato da Fico (sia partecipando ad una coalizione sia accettando un governo di minoranza guidato dal premier uscente).

Un altro dato importante di questa consultazione elettorale consiste nel calo di gradimento nei confronti dei partiti che si sono fatti portabandiera di visioni marcatamente nazionaliste. Questo non vale solo per i partiti nazionalisti slovacchi ma anche per il partito nazionalista della minoranza ungherese (Partito della coalizione ungherese) che non è riuscito a mantenere nemmeno 1 seggio parlamentare.

Last but not least, una coalizione di 4 partiti di centro – destra (il liberale SDKU guidato da Iveta Radicova che, salvo sorprese, dovrebbe diventare il primo premier donna della storia slovacca; Libertà e Solidarietà; Partito cristiano – democratico; Most – Hid, il Partito moderato della minoranza ungherese), si è aggiudicato 79 seggi e con molta probabilità riceverà, dopo che Robert Fico avrà preso atto dell’impossibilità di formare un esecutivo, l’incarico di governare il Paese. Tra le politiche che tale coalizione vorrebbe implementare ve ne sono 2 che hanno una dimensione geopolitica difficilmente sottovalutabile: l’atteggiamento negativo che 2 dei 4 partiti nutrono nei confronti del piano europeo volto a creare un fondo di salvataggio per l’area Euro e la volontà di dar vita ad un clima più rilassato e meno divisivo nei confronti della propria minoranza ungherese e nelle relazioni con Budapest. Nei paragrafi seguenti cercheremo di chiarire perchè, a nostro avviso, entrambe le questioni hanno una portata geopolitica.

Contrariamente a ciò che si potrebbe pensare, la campagna elettorale in questo piccolo Paese dell’Europa Orientale abitato da 5,4 milioni di abitanti non è stata egemonizzata dal tema dell’andamento dell’economia nazionale.

Tale questione, comunque importante, si è intrecciata con tutta una serie di tematiche quali, ad esempio, la questione della (vera o presunta) minaccia ungherese, il problema della corruzione presente nel Paese, il ruolo della Slovacchia nell’Unione Europea e nell’Eurozona, ritenute centrali sia dall’elettorato sia dalle forze politiche.

Questioni economiche

La crisi economica mondiale non ha di certo risparmiato la Slovacchia che, non dobbiamo mai dimenticarlo, rappresenta il Paese più povero dell’Eurozona con degli standards di vita pari al 72% della media dei Paesi che compongono la zona euro.

Nel 2009 si è registrata una contrazione del PIL pari al 4,7%, la prima recessione affrontata da Bratislava dai tempi del divorzio di velluto con la Repubblica Ceca (gennaio 1993) ed una crescita del deficit pubblico pari al 6,8%, ben al di la del 3% previsto dal Patto di stabilità e crescita. Gli esperti prevedono che, salvo interventi strutturali volti a contenere la spesa pubblica, il deficit lieviterà al 7,4%.

Alla base di tale aumento del deficit non vi è solo la diminuzione del PIL ma anche le politiche sociali messe in campo dal governo Fico. Infatti, dal suo insediamento nel 2006, il premier uscente ha incrementato le spese per il Welfare. La coalizione di centro – destra è intenzionata ad intervenire su quelle spese al fine di ridimensionarle. Tale progetto ha già portato ad un incremento delle vendite dei titoli di stato slovacchi.

Un’altra questione che spaventa molto gli slovacchi è la disoccupazione che è cresciuta drammaticamente nell’ultimo anno attestandosi al 12,97%, uno dei livelli più alti dell’Eurozona assieme ad Irlanda e Spagna.

Infine, anche se il debito pubblico slovacco è uno tra i più bassi d’Europa (35,7% del PIL) si ritiene che, senza manovre volte a correggere l’attuale tendenza negativa, esso posso aumentare vertiginosamente.

Sebbene la Banca centrale preveda che nel 2010 l’economia nazionale crescerà ad un tasso del 3,2% appare chiaro che il nuovo governo dovrà mettere mano a delle riforme volte a fronteggiare l’invecchiamento della popolazione, la disoccupazione e la corruzione nel sistema economico al fine di ridare slancio a quella che fino a poco tempo fa era definita come la tigre dell’Europa Orientale per via della sua crescita sostenuta e basata principalmente sulle esportazioni.

Da Bruxelles ad Atene via Bratislava

Un’altra questione economica, che merita una trattazione a parte per via delle pesanti ricadute geopolitiche che potrebbe avere sulla Slovacchia e sul suo ruolo nell’Unione Europea è quella legata al tendenziale rifiuto espresso da 2 delle 4 forze politiche che compongono la coalizione di centro – destra (che molto probabilmente formerà il nuovo governo) sia verso il progetto europeo volto a creare un fondo di salvataggio per l’eurozona chiamato European Financial Stability Facility da 440 miliardi di euro sia, di conseguenza, verso il pagamento di un contributo di 800 milioni di euro che la Slovacchia dovrebbe fare al fine di contribuire al prestito di 110 miliardi di euro concordato dai Paesi UE alla Grecia.

Le ragioni addotte da queste 2 formazioni politiche, una delle quali è lo SDKU di Iveta Radicova, probabile futuro primo ministro, sono le seguenti:

  1. il Paese ha bisogno, vista la situazione complessa e delicata in cui versano le finanze pubbliche, di tenere per sè più denaro possibile;

  1. i cittadini slovacchi, che come abbiamo detto sono i più poveri dell’eurozona con degli standards di vita pari al 72% della media dei Paesi che compongono la zona euro, non sono per niente favorevoli a fare sacrifici per aiutare Paesi più ricchi del loro;

Sebbene nel breve periodo entrambi gli argomenti sembrino ragionevoli molti esperti di politica slovacca sostengono che alla fine a Bratislava prevarrà una visione più diplomatica ed oculata in grado di tenere in considerazione gli interessi di lungo periodo del Paese, visione che porterà i decisori slovacchi ad optare per la partecipazione del loro Paese all’EFSF.

Se si tiene conto del fatto che, da un lato, il rifiuto slovacco a prendere parte a tale iniziativa non bloccherà la creazione del fondo e che, dall’altro, la ripresa economica della Slovacchia dipende chiaramente da un’alchimia composta da lungimiranti scelte economiche messe in campo dal governo e dalla stabilità, dal dinamismo, dalla prosperità e dalla solidarietà dell’eurozona ci sembra più che sensato augurarsi un cambiamento di opinione da parte dei 2 partiti che probabilmente comporranno la prossima coalizione di governo.

Come abbiamo avuto modo di constatare nelle ultime settimane, da un indebolimento della solidarietà tra i Paesi dell’area euro a guadagnarci sarebbero soltanto gli speculatori e non certo i Paesi europei, grandi e piccoli che siano.

Ci sembra dunque che non sia nell’interesse nazionale della Slovacchia prendere le distanze dall’ EFSF, principalmente per 2 motivi:

  1. perchè metterebbe la Slovacchia, Paese piccolo e relativamente povero, in rotta di collisione con i partners europei. Giova ripetere che la Slovacchia non ha la possibilità, per via del suo contributo ridotto, di bloccare la realizzazione del progetto, quindi un suo NO la spingerebbe politicamente in un angolo senza nemmeno darle la possibilità di poter ricattare gli altri partners con il blocco del progetto. È alquanto difficile che da tale collisione ad uscire vincitori siano gli interessi economici e geopolitici di Bratislava;

  1. La promozione degli interessi slovacchi, sia economici sia geopolitici, dipendono molto dalla stabilità e dalla solidarietà all’interno dell’eurozona. Dalla Slovacchia ci si attende dunque una scelta più lungimirante da cui, sia chiaro, a trarne beneficio saranno prima di tutto i propri cittadini. Contribuire a minare la solidità dell’eurozona sarebbe per Bratislavia un clamoroso autogol;

Per questi motivi ci sembra corretto affermare che il Paese, non per idealismo disinteressato bensì per meglio servire i propri interessi, dovrebbe essere presente, in misura proporzionale alle sue capacità economiche si intende, a tale iniziativa europea volta a fare quadrato attorno all’euro.

Un nodo geopolitico: la minoranza ungherese ed i non facili rapporti con Budapest

Quello delle minoranze nazionali è un problema che accomuna tutti i Paesi dell’Europa Orientale e la Slovacchia non fa certo eccezione. La questione ungherese in Slovacchia rappresenta forse il nodo geopolitico più importante e, con molta probabilità, quello più difficile da sciogliere.

Il rapporto con la propria minoranza ungherese e con Budapest ci porta dritto al cuore della rappresentazione geopolitica slovacca, soprattutto di quella promossa dal governo Fico, una rappresentazione volta a dipingere l’Ungheria come un vero e proprio pericolo alla sicurezza nazionale del Paese per via della sua politica revanscista e la propria minoranza ungherese come una possibile quinta colonna su cui vigilare attentamente.

È dunque superfluo dire che i rapporti tra Bratislava e Budapest, durante l’era Fico, non sono sempre stati idilliaci. L’ultima ondata di tensioni si è verificata in seguito all’approvazione da parte del parlamento di Budapest, lo scorso maggio, di una legge volta a concedere la doppia cittadinanza a tutti gli ungheresi residenti in altri Paesi, come la Slovacchia ad esempio. La reazione del governo slovacco è stata immediata e rabbiosa, con il primo ministro Fico che ha definito tale atto una grave minaccia alla sicurezza nazionale e che come contromisura ha proposto, attirando le critiche di Budapest, di privare della cittadinanza slovacca tutti coloro che avessero fatto domanda per ottenere quella ungherese. Non si dimentichi che 500 mila cittadini slovacchi, vale a dire il 10% della popolazione, appartengono alla minoranza ungherese concentra nel sud del Paese.

E’ chiaro che il governo Fico, anche per via dei suoi alleati nazionalisti, ha soffiato sul fuoco delle tensioni e ha ridotto gli spazi per rapporti più distesi politicizzando gli elementi che dividono piuttosto che quelli che avvicinano i due popoli. Stessa cosa dicasi per la controparte ungherese.

Tuttavia sarebbe un errore pensare che dietro ai non facili rapporti slovacco-ungheresi ci sia solo e semplicemente la mano di forze politiche che hanno interesse a creare divisioni là dove invece vi è concordia. La questione è più complessa. Esistono in realtà eventi storici su cui si sono articolate rivendicazioni politiche, narrazioni storiche e mitologiche non solo divergenti ma spesso conflittuali, rivendicazioni e narrazioni che si sono sedimentate e che per questo sono difficili da cambiare. Il trattato del Trianian (1920) con cui l’Ungheria fu privata di 2/3 del suo territorio e molti suoi cittadini si ritrovarono a vivere improvvisamente in Stati stranieri quali Romania, Cecoslovacchia e Jugoslavia ed il decreto voluto da Benes nel secondo dopoguerra con cui si pianificò l’espulsione di 3 milioni di tedeschi e 600 mila ungheresi e l’incameramento dei loro beni da parte dell’allora Cecoslovacchia comunista sono due tra i molteplici esempi di eventi storici dolorosi su cui si sono innestate letture differenti che influenzano ancora oggi la vita delle persone, le loro scelte di voto e le loro percezioni geopolitiche.

Dalla coalizione di centro-destra, a cui, salvo colpi di scena, spetterà l’onere e l’onore di guidare il Paese ci si attendono passi in avanti verso un rapporto più sereno con la propria minoranza ungherese e, ma ciò dipende anche dalla volontà della controparte, con Budapest. Chiaramente tra i 2 processi di distensione esistono legami ed influenze reciproche.

I presupposti perchè le tensioni verso la minoranza ungherese si stemperino sembrano esserci tutti, basti ricordare che 1 dei 4 partiti della coalizione è il Most-Hid, partito moderato della minoranza ungherese che ha soppiantato, nelle preferenze di voto, il più nazionalista Partito della coalizione ungherese. Tra gli obiettivi del Partito, fatto proprio anche dagli altri alleati, vi è la volontà di creare legami tra le due comunità al fine di ridurre, o almeno contenere, gli attriti.

Abbassare i toni nelle relazioni con la minoranza ungherese ci sembra più che doveroso. Sarebbe utile che Bratislavia, di fronte al dato di fatto della presenza di una minoranza etnica ungherese alquanto consistente e geograficamente concentrata trovasse il coraggio di fare un passo deciso verso l’inclusione (che non significa certo assimilazione) politica, sociale ed economica nonchè verso il rimodellamento della propria rappresentazione geopolitica al fine di permettere anche agli ungheresi una partecipazione piena alla definizione e promozione degli obiettivi geopolitici del Paese.

Conclusioni

Il risultato delle elezioni slovacche ha messo in luce, allo stesso tempo, la popolarità di cui gode ancora il primo ministro uscente Robert Fico, presentatosi in campagna elettorale come il protettore del popolo slovacco, ed il rifiuto, da parte dell’elettorato, di molte delle sue politiche a cominciare da quelle più marcatamente nazionaliste. Il fatto che i suoi 2 alleati di governo, entrambi nazionalisti, siano usciti malconci dalla consultazione elettorale ne è la riprova.

È probabile che Fico, dopo qualche tentativo di attirare verso di sé almeno 1 dei 4 partiti della coalizione di centro-destra al fine di costituire un nuovo governo, prenda atto dell’impasse, passi la mano e si sieda all’opposizione. Una cosa è sicura, la sua carriera non è finita ed il suo potere rimane molto grande. Quindi, se dai banchi dell’opposizione decidesse di cavalcare la tigre del nazionalismo, che oggi non pare essere un buon affare ma, si sa, le cose cambiano in fretta, potrebbe ostacolare la volontà della coalizione di centro-destra di costruire legami stabili con la minoranza ungherese ed il tentativo di riportare le relazioni con Budapest sui binari della normalità. Tuttavia, come la saggezza popolare insegna, non bisogna fasciarsi la testa prima di rompersela, dunque attendiamo e vediamo come evolvono i rapporti tra maggioranza ed opposizione.

In conclusione, oggi la vera sfida geopolitica che attende il futuro governo è quella volta a costruire ponti resistenti tra le varie etnie che compongono questo piccolo Stato. Infatti, oltre a quella ungherese esiste anche una minoranza rumena che è afflitta da livelli di povertà, privazione sociale ed esclusione a tratti intollerabile. Anche in questo caso, a nostro avviso, la risposta giusta, come nel caso della minoranza ungherese, consiste nel mettere in campo una serie di politiche inclusive e nel rendere partecipe la minoranza rumena del processo di ridefinizione della rappresentazione e degli obiettivi geopolitici del Paese.


* Alessio Bini è dottore in Relazioni internazionali (Università di Bologna)

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